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Tenere una casa in Italia, dopo essersi stabiliti all’estero, spesso pesa sul portafoglio più del previsto. Dal 2026, però, cambieranno alcune norme sull’Imposta Municipale Unica (IMU) che dovrebbero renderla più giusta, soprattutto per chi non ha perso il contatto con il territorio. Si parla soprattutto di piccoli comuni, dove il legame con la propria abitazione conta parecchio. Non è una rivoluzione totale, ma una selezione più attenta basata sul valore dell’immobile e sulla posizione, senza dimenticare la storia residenziale del proprietario.
Un’imposta modulata sul valore reale dell’immobile
La novità più rilevante riguarda la modulazione dell’IMU secondo la rendita catastale, un cambiamento netto rispetto alla vecchia modalità più uguale per tutti. Le case con rendita fino a 200 euro – e qui parliamo di abitazioni, diciamo, più semplici – saranno totalmente esentate dal pagamento. Basta con tasse che spesso finiscono per essere troppo alte rispetto al valore reale del bene.
Se l’immobile ha una rendita tra 201 e 300 euro, l’Imu verrà ridotta con una quota pari al 40% di quella base. Salendo nella fascia fra 301 e 500 euro, la detrazione scende a un 67%, mentre per una rendita superiore a 500 euro si torna al regime pieno senza sconti.
Particolare attenzione va ai piccoli centri, dove tenere una casa significa più di un semplice investimento. C’è chi – anche se abita altrove ormai – mantiene un ruolo nel tessuto locale, e qui il sistema fiscale riconosce questa continuità con uno sgravio che fa la differenza. Stranamente, non si tratta solo di numeri ma di un supporto vero alle comunità meno valorizzate dal mercato immobiliare.

Le condizioni per accedere agli sgravi fiscali
Attenzione: gli sconti non si ottengono per tutti, ma solo per chi possiede una singola unità immobiliare ad uso abitativo, che deve essere libera da affitti o comodati. Un dettaglio importante per evitare abusi e limitare le agevolazioni a chi ce l’ha davvero come casa propria.
Altro punto fondamentale riguarda la posizione dell’immobile: deve trovarsi nel comune di ultima residenza prima del trasferimento fuori dall’Italia, e questo centro dev’essere piccolo, con meno di 5.000 abitanti. Si tratta di un particolare molto concreto, perché nelle grandi città – dove i ritmi sono diversi – questo tipo di norma passa quasi inosservato. Nel resto d’Italia, invece, è una vera manna per evitare lo spopolamento.
Il senso profondo? Mantenere una proprietà in questi casi non è solo una questione personale: vuol dire dare un contributo – anche solo indiretto – al mantenimento della vita sociale e demografica di quei territori. Cosa che, ormai, molti vedono come un valore da non perdere.
L’addio ai vincoli basati su pensione e iscrizione AIRE
Un cambiamento grosso riguarda i criteri di accesso alle agevolazioni. Fino a poco tempo fa, per esempio, ci si basava sulla percezione di una pensione estera in convenzione o sull’iscrizione all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE). Oggi questi parametri sono stati messi da parte. Va da sé che l’attenzione si è spostata su requisiti più oggettivi – e meno legati alla storia personale.
Fra i più rilevanti spicca la residenza minima in Italia di cinque anni. Curioso, ma segno di una maggiore attenzione al legame con il territorio piuttosto che allo status anagrafico o pensionistico.
Il risultato? Un sistema più snello, meno discriminante e forse più giusto, che guarda con rispetto a chi mantiene un immobile in un piccolo comune pur vivendo all’estero. Non una rivoluzione repentina, ma un passo avanti che potrà cambiare molto per tante persone, soprattutto per chi – da lontano – non vuole dimenticare la propria realtà di origine.
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